Bugiardino

Leggere attentamente le istruzioni prima di consumare il prodotto.
Non si accettano reclami su casi di indotta diarrea, dolori addominali e affini.
Sconsigliato a soggetti di esile composizione tantrica e rompicoglioni vari.
Tutti gli scritti appartengono al sottoscritto, il quale si prende carico di eventuali ripercussioni.




lunedì 24 dicembre 2012

Il mio regalo di Natale

Ciao energumeni,

come ogni anno arriva il Natale, e come ogni volta ci si scambia dei doni.

Questo è il regalo che dedico a tutti coloro che nell'arco di questo primo anno di vita di Macello sono passati

per una visita, un occhiata, un commento.

Grazie.




domenica 23 dicembre 2012

Pelliccia's corner (letsfallinlovewithmusic) : I migliori del 2012

Come ogni testata che si rispetti (in senso letterale), anche qui su Macello abbiamo la nostra classifica di fine anno.
Quali sono i dischi che negli ultimi 12 mesi vi hanno lasciando un segno, anche con le forbici mentre li spacchettavate ?
Mister P ha stilato la sua personale classifica (che a grandi linee condivide anche il sottoscritto, tralasciando la bocciatura dei Muse) e ce la dona in questo clima di festività che a molti, diciamolo, rompe i cabasisi.

It's the final countdown


Dunque, non poteva non arrivare il momento della classifica di fine anno, i dieci dischi migliori del 2012 (i peggiori dell’anno, assolutamente e purtroppo, l’ultimo Soundgarden e l’ultimo Muse)                                    Per ogni disco, come sempre qui sopra, ci sarà un piccolo video allegato (quindi quest’oggi un diluvio di video!)  Scelta ardua e terribile, individuare la reginetta in mezzo a cotanta beltà… ma la palma di miglior disco del 2012, nonostante non sia il mio genere di elezione, va ai Converge, freschi di stampa a Ottobre con “All We Love We Leave Behind”, edito dalla Epitaph. Il perché è presto detto. Perché è un disco DEVASTANTE. Il classico pugno di ferro in un guanto di velluto di “Aimless Arrow”,  la furia belluina di “Sparrow’s Fall”, l’incedere melmoso e circolare di “Sadness Comes Home” che si trasforma in un diluvio di heavy metal mutante. L’hardcore evoluto, il metal in ogni sua possibile declinazione con gli Slayer sempre nel mirino, mille altre cose fatte detonare con una furia disumana (come disumana è la sezione ritmica del disco, millimetricamente chirurgica nel suo essere una scheggia impazzita), i Converge dal  1990 rimangono oggettivamente superiori a qualsiasi altra band si voglia cimentare sullo stesso terreno.     (qui inserisci il link dei Converge)                                        
 Ora, i restanti dischi non saranno in ordine di gradimento, perché per me sono tutti parimenti belli; per cui, l’ordine sarà rigorosamente cronologico, indicando autore, titolo ed etichetta, e aggiungendo una piccola postilla al perché della mia scelta. Sit down, relax, enjoy.
Prinzhorn Dance School – Clay Class (DFA) perchè esclusi i Velvet Underground e i Low, nessun altro è riuscito a esprimere così tanto con così poco.  
Motorpsycho – The Death Defying Unicorn (Stickman) perché infilano in un disco solo jazz, classica, prog, hard rock, folk con tecnica cristallina e una musicalità ineccepibile. Altro che le menate dei Dream Theater.
Jack White – Blunderbuss (XL) perché anche se il disco non è perfetto, se si è anche solo minimamente interessati a una faccenda chiamata rock’n’roll non si può non considerarlo un fuoriclasse.
Fanfarlo – Rooms Filled With Lights (Canvasback) perchè nel loro pop orchestrale, perfetto senza suonare artificioso, c’è così tanto materiale che molti loro colleghi ci scriverebbero un’intera discografia.
Sigur Ros – Valtari (EMI) perché è una valanga al rallentatore filmata con una vecchia pellicola, in bianco nero, o un paesaggio immortalato in una foto color seppia…la nostalgia in musica.
Patti Smith – Banga (Sony) perché la signora ha una sensibilità artistica rara e a distanza di tanti anni è ancora un pozzo senza fondo di emozioni e riflessioni.
XX – Coexist (XL) perché pur giovanissimi, hanno una personalità tale che snobbarli sarebbe un imperdonabile errore.
Beth Orton – Sugaring Season (Anti) perché giunge al tuo cuore in punta di piedi, e album dopo album diventa un bisogno insostituibile quello di (ri)scoprire le sue canzoni.
Godspeed You! Black Emperor – Allelujah! Don’t Bend! Ascend! (Constellation) perchè in 4 canzoni e 55 minuti ti regalano un viaggio verso l’infinito e oltre.

That’s all, folks. Ci rivediamo nel 2013.




martedì 18 dicembre 2012

Pelliccia's corner (letsfallinlovewithmusic) : In punk we trust.

Grazie.
Desidero pubblicamente ringraziare Pelliccia per la segnalazione odierna.
Questa è roba bollente cari amici, passata in seconda linea nelle classifiche dell'epoca forse perchè piu' adatta ad orecchie "diversamente ricettive" rispetto alla norma e perchè no, forse piu' adatte a sanguinare.

Vai col pezzo.


POP IN PUNK CLOTHES
Rieccomi qui, rieccomi a parlare del punk minore. Sarà perché ormai conoscete vita morte e miracoli di Nevermind The Bollocks e London Calling, sarà perché avete già in casa tutti i dischi di Green Day, NOFX e Rancid, sarà perché io sono un topo da archivio e rifuggo l’ovvio come il diavolo rifugge l’acquasanta, ma a ben cercare fra la pletora di dischi delle cosiddette “seconde linee” si trovano davvero dei piccoli classici.
E’ il caso di “Can’t Stand The Rezillos” degli scozzesi Rezillos, uscito nel 1978 per la Sire.
I Rezillos nascono nel 1976 ad opera di Eugene Reynolds e Fay Fife, a cui si aggiungono Jo Callis alla chitarra, William Mysterious al basso e Angel Pattinson alla batteria. Caratteristica peculiare della band è il sound squisitamente in bilico fra punk, new wave e reminiscenze ‘50s (chiarissime nel rifframa delle chitarre), il tutto unito a un’immagine equidistante sia dal propotipo del punk straccione, sia da quello del seriosissimo new waver, ma molto più vicina a un immaginario “camp/teen” da filmetto b-movie.                                        Il solito apprendistato a base di live infuocati e di singoli al fulmicotone, e un paio di anni dopo arriva l’esordio, Can’t Stand The Rezillos, una vera fucilata, anzi una serie di 13 fucilate che non lasciano scampo alcuno all’ascoltatore.                                                                                                                                                                    Si parte con Flying Saucer Attack e fino alla fine del disco è un susseguirsi di ritmi veloci e serrati, schitarrate a rotta di collo, handclapping studiati per far impazzire il pubblico sotto il palco (datevi un’ascoltata a My Baby Does Good Sculptures e capirete di cosa sto parlando), dieci composizioni originali e una tripletta di covers (Gerry & The Pacemakers, Dave Clark Five, Fleetwood Mac) che tradiscono il malcelato amore del gruppo per i favolosi anni ’60; l’ultima in oggetto, Somebody’s Gonna Get Their Head Kicked In Tonight, è pure finita a fare da colonna sonora alle “imprese” di quegli sciroccati di “Jackass”  - cosa che ha permesso al gruppo di guadagnarsi un posto nelle preferenze dei giovani pischelli di oggi.
Fiamme altissime ma un fuoco che brucia subito, quindi inevitabile lo scioglimento appena un anno dopo, come da migliore tradizione punk.                                                                                                                                                                    Se i Rezillos hanno continuato per un paio di anni senza molto successo, i Revillos di Reynolds e Fife hanno imperversato per tutti gli ’80 e metà ’90 con dischi tutto sommato gradevoli; poi, nel 2001, il ritorno dei Rezillos in formazione (quasi) originaria, rimpiazzando Callis con Jim Brady e Mysterious con Chris Agnew (figlio d’arte, il papà Pete suonava il basso nei Nazareth di settantiana rockettara memoria) e incidendo addirittura un nuovo brano, Number One Boy.
Che dire, se non…correte a cercarvi questa piccola pietra miliare!







venerdì 7 dicembre 2012

Pelliccia's corner (letsfallinlovewithmusic) : Quello che spacca.

Proprio quel disco, quello che metti su quando vuoi spaccare il culo anche alle mosche, è di lui, o meglio del suo che ci parla Mister P questa sera.

Chèvvelodicoaffà.

Rumore Bianco

Probabilmente ognuno di voi, nel novero dei suoi dischi preferiti, ha una sorta di catalogo: il disco per una cenetta romantica, il disco per quando si vuole stare da soli coi propri pensieri, il disco per fare le pulizie di casa (i malati hanno anche questa catalogazione. Il mio? James Brown, “Sex Machine”) etc.etc. Ovviamente in questa speciale classifica non può mancare “il disco da mettere su quando hai voglia di spaccare tutto”, che nel mio caso è, decisamente, “Kick Out The Jams” dei sottovalutatissimi, imprescindibili MC5, gruppo che ha aperto la strada a colonne come gli Stooges, per dirne una.
Tanto per iniziare, considerate che per chi scrive questo è il secondo miglior disco live della storia del rock tutto (il primo è ovviamente “Live at Leeds” degli Who) ed è anche il disco di debutto per questa formazione americana, nata nel 1964 per volere dei due chitarristi terribili Fred “Sonic” Smith e Wayne Kramer e che potremmo definire “punk prima del punk”. Certo, musicalmente gli MC5 son riconducibili ad altro, una specie di garage rock psichedelico imbevuto di blues e r’n’r (!), influenzato tanto dal surf caciarone di Dick Dale quanto dal blues primitivo di Bo Diddley e dalle atmosfere spaziali di Sun Ra…ma quello che li porta ad essere considerati degli antesignani del punk è più che altro l’atteggiamento: nichilista e distruttivo (il gruppo esordì nel 1969 e nel 1972 si sciolse minato dagli abusi di tutti e cinque i componenti, dei veri losers come li avrebbe cantati più tardi Johnny Thunders) ma nel contempo carico di quella rabbia e di quel desiderio di cambiamento che l’epoca richiedeva (gli MC5 sono diventati famosi anche per la loro amicizia con le sovversive White Panthers, sorta di gruppo bianco di appoggio alle Black Panthers nato a Detroit e capeggiato dallo spiritato anticapitalista Jason Sinclair). Ma lasciamo da parte i retroscena politici e torniamo al nostro esplosivo padellone….
Registrato in due notti al Detroit Grande Ballroom nel 1969, gli MC5 concretizzano la fama crescente che i loro infuocati live acts stavano guadagnando; non un secondo di cedimento, anche nelle parti più ipnotiche e rallentate la tensione è tale che è impossibile stare fermi o lasciarsi andare. L’inizio con la cover della misconosciuta “Ramblin’Rose” è un pugno nello stomaco di dimensioni inusitate, così come lo è “Rocket Reducer No.62 (Rama Lama Fa Fa Fa)”, un delirio rumoristico di quasi sei minuti; se nell’infinita rivisitazione di “Motor City Is Burning” il cantante Rob Tyner risveglia le coscienze degli astanti celebrando le Black Panthers, nella conclusiva “Starship” si va a citare una delle poesie di Sun Ra (per Smith e Kramer una vera ossessione, soprattutto in virtù dell’approccio free jazz del loro chitarrista Sonny Sharrock). Ma la vera perla del disco, la summa di sessant’anni di storia del rock e di schitarrate mimate davanti allo specchio da parte dei rockers di tutto il mondo, è la seconda canzone del disco, quella “Kick Out The Jams” che ogni rockband del pianeta ha suonato almeno una volta nella vita; tre minuti di pura gioia, “it’s time to kick out the jams, motherfuckers” ed è impossibile capirci qualcosa o descrivere quello che si prova. Il manifesto programmatico di chi nella sua vita non può vedersi se non sul palco, dietro al microfono o con uno strumento appeso al collo o a pestare dietro le pelli, forse, rende bene l’idea. That’s rock, folks.


lunedì 3 dicembre 2012

Un triste lieto epilogo.

Ci sono canzoni che pur avendo un significato ben preciso per coloro che le scrivono, si prestano a chiavi di lettura soggettive, interpretate da coloro che le ascoltano.
In periodi come quello che stiamo vivendo, la mancanza di un barlume di luce, di una speranza, è la cosa che forse inconsciamente le persone sopportano di meno.
Ci sono quindi figure, scritti e canzoni appunto ai quali aggrapparsi cercando conforto.
E la seguente per mè è uno di quei appigli, mi piace vedere il terribile cavaliere morente descritto nel testo come il sistema che ci opprime, conscio del fatto che la sua egemonia è giunta al capolinea.
Forse è un modo un pò fiabesco e di "sinistra" di vedere le cose, ma il mio ragionamento non vuole essere quello del ventenne con la foto del Che in camera che ostenta il pugno chiuso, ho avuto anch'io i vent'anni, il mio modo di vederla è frutto di  un'analisi pacata, da padre di famiglia che ormai conosce le meccaniche del "mondo degli adulti", e desidererebbe vederle cambiare.


Cavalli corpi e lance rotte 

si tingono di rosso, 

lamenti di persone che muoiono da sole 

senza un Cristo che sia là. 
Pupille enormi volte al sole 

la polvere e la sete 

l'affanno della morte lo senti sempre addosso 

anche se non saprai perchè. 


Requiescant in pace. Requiescant in pace. 

Requiescant in pace. Requiescant in pace. 


Su cumuli di carni morte 

hai eretto la tua gloria 

ma il sangue che hai versato su te è ricaduto 
la tua guerra è finita 

vecchio soldato. 


Ora si è seduto il vento 

il tuo sguardo è rimasto appeso al cielo 
sugli occhi c'è il sole 

nel petto ti resta un pugnale 
e tu no, non scaglierai mai più 

la tua lancia per ferire l'orizzonte 
per spingerti al di là 

per scoprire ciò che solo Iddio sa 
ma di te resterà soltanto 

il dolore, il pianto che tu hai regalato 
per spingerti al di là 

per scoprire ciò che solo Iddio sa. 


Per spingerti al di là, 

per scoprire ciò che solo Iddio sa..



domenica 2 dicembre 2012

Esticazzi ???


Pelliccia's corner (letsfallinlovewithmusic) : Rastafariano a chi ?

Uomo dalle mille sfaccettature, il Pelliccia stasera ci parla di cio' che la maggior parte della gente stereotipando il genere abbina  a Jamaica, cannazze e capelle longhe (cit).

Il Reggae, musica fortemente intrisa di significati scocio-culturali, va' oltre il leggendario Bob Marley, se non ci credete proseguite nella lettura.

Vai Pelliccia, nel nome di Jah.


Natty Dread
(parentesi doverosa: quello che sta sul mio disco fisso lo trovate anche sui miei scaffali, solo che pescare random dal mio disco fisso è più divertente che scegliere scorrendo e scorrendo e scorrendo….)
Rubo il titolo di una canzone del signor Robert Marley in arte come Dylan per poter parlare un po’ di reggae.  Reggae? Cioè tu ascolti musica reggae? Ebbene sì, faccio outing.                                                Nonostante la dancehall e robe similari continuano a farmi abbondantemente cagare e nonostante io fatichi a trovare qualcosa di vagamente decente ed ascoltabile in gruppi tipo i Sud Sound System, a cavallo fra metà anni ’70 e primissimi anni ’80 si può trovare un sacco di roba interessante; innanzitutto musica suonata (coi controcazzi, pure) e non basi buone manco per farci il karaoke…in secondo luogo, voci degne di nome, non lamenti monocordi tutti uguali (cioè, ditemi come si fa a riconoscere Buju Banton da Capleton, per dire) e cosa più importante, niente sessuomani omofobi con la sindrome della big gun a scrivere chilometri di liriche su chi ha il bastone più lungo e desiderato, ma cervelli pensanti, che usano il reggae come veicolo per esprimere la rabbia e il malcontento della povera gente, la frustrazione e il desiderio di rivalsa della minoranza Rasta, ma anche un sacco di fumose “good vibes”, cose molto fricchettone tipo pace amore e fratellanza…un po’ come alcuni illuminati punk nel ’77 ma con moooolto meno nichilismo, ecco, eheh.
Tra i tanti degni di nota che NON sono SOLO Marley o Tosh, legalize don’t criticize it no uoman no crai, ce n’è uno con una voce spaventevolmente bella che si chiama Cornel Campbell – auguri a lui che il 23 novembre scorso ha compiuto 67 anni. Il rastaman in questione esordisce alla tenera età di 11 anni e dopo un inizio in sordina con gruppi vocali di scarsa fortuna, a fine anni ’60 comincia ad azzeccare una serie di singoli come “Queen of the Minstrel” e “Stars”. Arriva così negli anni ’70 il primo disco come solista,omonimo, e inizia in quegli anni un lungo sodalizio col produttore Bunny Lee. Risultato? Una decade costellata di singoli di successo, come “Natty Dread In A Greenwich Farm”, “Dance In a Greenwich Farm”, “Gorgon”, “Press Along Natty” , e dischi riuscitissimi, il cui vertice è forse “Fight Against Corruption” del 1983. Testi profondi ed ispiratissimi e una schiera di musicisti di prim’ordine a collaborare (Sly e Robbie – vale a dire la sezione ritmica del 90% dei dischi reggae – e un bel po’ di Wailers di contorno), roots reggae di quello buono che si ascolta volentieri come contorno alla tripletta “divano-sigaretta-libro e/o giornale”. Ideale introduzione al mondo di questo fuoriclasse della musica in levare è “Original Blue Recordings 1970 – 1979”, disco di non facilissima reperibilità ma che val la pena sbattersi un po’ a cercare…




n.d.r. Anche costui merita comunque di essere menzionato