Bugiardino

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domenica 28 aprile 2013

Pelliccia's corner : Sometimes wishes, they come true

I favolosi sixteens.

La puntata odierna ci catapulta direttamente ai glitterati 60.
Egemonizzati dagli Scarrafoni gli anni in questione offrirono col filone beat una non omogenea schiera di pseudo bands.
Tra cui i Monkees in questione.

Io sono un credulone.

Sometimes wishes, they come true
Arieccoci a scribacchiare di musica, dopo due settimane di brutti bruttissimi lutti a sette note (Chi Cheng, il bassista dei Deftones prima, poi Storm Thorgenson – l’uomo dietro alle copertine dei Pink Floyd – e Ritchie Havens, l’incredibile autore di “Freedom” che armato di sola voce e chitarra stregò Woodstock nel ’69) che han messo nel cassetto la mia voglia di scrivere. Beg your pardon.
Ora, il prossimo gruppo ha molto a che fare coi Fab Four. Sì, proprio i Beatles. Non tanto direttamente, quanto indirettamente. Infatti, i queattro ragazzotti in questione, tre americani di Los Angeles più un inglese, vengono scritturati dalla NBC nel 1965 come attori; dovevano interpretare sullo schermo la storia di una band che voleva diventare famosa come John Paul George e Ringo, ma senza riuscirci. Peccato che i Monkees trasformano la stessa sigla del programma in un piccolo hit, e nello stesso anno (1966) con Last Train to Clarksville e soprattutto I’m A Believer (esatto, quella che gli Smash Mouth hanno rifatto benissimo per Shrek non riuscendo comunque a superare lo splendore dell’originale) fanno un botto tale che i dirigenti della NBC (e della RCA, che pubblicherà i loro dischi) intravedono la nuova gallina dalle uova d’oro. Ragion per cui, in un solo anno, i Monkees pubblicheranno ben tre dischi, prova dura ma che dà esaltanti e insperati frutti. Ma il ferro va battuto finchè è caldo, e nel 1968 escono altri due dischi, frutto della collaborazione con un altro astro nascente, Harry Nilsson (sì, quello di Everybody’s Talkin’); il primo contiene due gemme come “Pleasant Valley Sunday” e “Words”, il secondo quella “Valleri” che da sola venderà oltre un milione di copie, roba che neanche lontanamente ci si sarebbe aspettati. E’ una vera e propria Monkees-mania!
Ma qui il giocattolo si rompe; cinque album in nemmeno due anni, una dozzina di singoli sono quanto la magica macchina sforna-hit riesce a produrre prima che le continue apparizioni televisive e i ritmi frenetici di produzione a cui è sottoposta svuotino completamente il serbatoio e riducano i Monkees a una sbiadita copia di loro stessi, spremuti tra 1969 e 1970 e costretti a pubblicare roba davvero di poco conto, prima di sciogliersi e di riunirsi tristemente a metà anni ’80 con un disco che definire brutto è un eufemismo (lasciamo perdere quello di metà ’90 che è buono giusto a non far traballare qualche sedia sbilenca).
Se volete gustarvi il meglio di questa combriccola, cercate una compilation che raccolga i singoli, preparate la parrucca a caschetto e gli stivaletti, e dateci dentro. Yeeeeeee!


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