La puntata odierna ci catapulta direttamente ai glitterati 60.
Egemonizzati dagli Scarrafoni gli anni in questione offrirono col filone beat una non omogenea schiera di pseudo bands.
Tra cui i Monkees in questione.
Io sono un credulone.
Sometimes wishes, they come true
Arieccoci a scribacchiare di musica, dopo due settimane di brutti bruttissimi lutti a sette note (Chi Cheng, il bassista dei Deftones prima, poi Storm Thorgenson – l’uomo dietro alle copertine dei Pink Floyd – e Ritchie Havens, l’incredibile autore di “Freedom” che armato di sola voce e chitarra stregò Woodstock nel ’69) che han messo nel cassetto la mia voglia di scrivere. Beg your pardon.
Ora, il prossimo gruppo ha molto a che fare coi Fab Four. Sì, proprio i Beatles. Non tanto direttamente, quanto indirettamente. Infatti, i queattro ragazzotti in questione, tre americani di Los Angeles più un inglese, vengono scritturati dalla NBC nel 1965 come attori; dovevano interpretare sullo schermo la storia di una band che voleva diventare famosa come John Paul George e Ringo, ma senza riuscirci. Peccato che i Monkees trasformano la stessa sigla del programma in un piccolo hit, e nello stesso anno (1966) con Last Train to Clarksville e soprattutto I’m A Believer (esatto, quella che gli Smash Mouth hanno rifatto benissimo per Shrek non riuscendo comunque a superare lo splendore dell’originale) fanno un botto tale che i dirigenti della NBC (e della RCA, che pubblicherà i loro dischi) intravedono la nuova gallina dalle uova d’oro. Ragion per cui, in un solo anno, i Monkees pubblicheranno ben tre dischi, prova dura ma che dà esaltanti e insperati frutti. Ma il ferro va battuto finchè è caldo, e nel 1968 escono altri due dischi, frutto della collaborazione con un altro astro nascente, Harry Nilsson (sì, quello di Everybody’s Talkin’); il primo contiene due gemme come “Pleasant Valley Sunday” e “Words”, il secondo quella “Valleri” che da sola venderà oltre un milione di copie, roba che neanche lontanamente ci si sarebbe aspettati. E’ una vera e propria Monkees-mania!
Ma qui il giocattolo si rompe; cinque album in nemmeno due anni, una dozzina di singoli sono quanto la magica macchina sforna-hit riesce a produrre prima che le continue apparizioni televisive e i ritmi frenetici di produzione a cui è sottoposta svuotino completamente il serbatoio e riducano i Monkees a una sbiadita copia di loro stessi, spremuti tra 1969 e 1970 e costretti a pubblicare roba davvero di poco conto, prima di sciogliersi e di riunirsi tristemente a metà anni ’80 con un disco che definire brutto è un eufemismo (lasciamo perdere quello di metà ’90 che è buono giusto a non far traballare qualche sedia sbilenca).
Se volete gustarvi il meglio di questa combriccola, cercate una compilation che raccolga i singoli, preparate la parrucca a caschetto e gli stivaletti, e dateci dentro. Yeeeeeee!
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