Bugiardino

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martedì 19 marzo 2013

Don't Fear The Eighties

E' tornato Pelliccia, è tornato.
Il nostro uomo today si immerge nella decade che per molti di noi significa infanzia, con il suo edonismo Reganiano, i capelli cotonati, il pop swatch al polso e lo spunti' come merenda.
Inutile ricordare che musicalmente gli anni in questione siano stati alquanto "bizzarri", ed in quanto tali prolifici sotto il punto di vista creativo.
Su un ipotetico asse delle ordinate troveremo ad esempio molte piu' variabili negli anni in questione piuttosto che nella decade precedente, che seppur molto produttiva fu' sicuramente meno innovativa di quella che la seguì.
I Talking Heads.
Non mi pronuncio in merito per paura di essere troppo di parte, vi basti sapere che annovero Byrne fra i primi dieci fenomeni della musica mondiale di tutti i tempi, e qui mi fermo.
Detto cio' lascio spazio all'autore della rubrica che per l'ennesima volta ci delizia con una delle sue leggendarie disquisizioni.

Vai Jack. Ehm, Pelliccia.


Don’t fear the Eighties
Se c’è un decennio che a livello musicale crea qualche scompenso,beh quelli sono gli amati/odiati ‘80s. Pietra tombale del punk per alcuni, per altri il decennio della musica pop che conta – per me anni impossibili da buttare, considerando che ne è venuta fuori roba come Nick Cave, Cure, Fugazi, Dinosaur Jr, Sonic Youth. Il fatto è che, tralasciando chi ha cominciato a fare musica proprio in quel decennio, gli artisti arrivati dagli anni ’70, se non peggio dagli anni ’60, si son ridotti in quegli anni a incidere delle solenni porcherie, artisticamente suicidandosi o riducendosi in fin di vita (a onor del vero, alcuni si sono garantiti la pensione d’oro, con dei dischi mediocri…non vi dico a chi penso per evitare strali da parte del webmastro). Ma come in tutti i frangenti, vi sono delle magnifiche eccezioni.
Una di queste parte nel 1977 con un disco che anticipa la new wave e definisce le coordinate del cosiddetto “art punk”, snodandosi poi attraverso i famigerati anni in questione in un territorio inesplorato dove Pop, Rock, Funk, World Music, Wave (e chi più ne ha più ne metta) si incrociavano con allegra eresia; ovviamente sto parlando di David Byrne e di quei geniacci dei Talking Heads.
Se parte della loro fortuna artistica e commerciale e dovuta all’indubbio talento fuori dal normale dei quattro musicisti coinvolti nel progetto, parte è anche dovuta all’uomo dietro il mixer, che per quattro dischi è stato nientepopodimeno che Brian Eno (ed è risaputo, dove il ragazzo mette le mani, esclusi i Coldplay, fa dei miracoli); lui li ha avvicinati alla funkadelia, alle poliritmie del continente nero e a Fela Kuti, lui ha contribuito a sviluppare il caleidoscopio di influenze che si agitava nelle quattro teste e a renderlo così naturale e fluido su disco, trasformando “semplici” canzoni pop come “Once In a Lifetime” o “Burning Down The House” in veri e propri capolavori.
Ma se dobbiamo parlare di un loro disco, io mi getto su “Little Creatures”, targato 1985, e secondo disco senza la produzione di Eno (qui Byrne e soci fanno da soli, autoproducendosi); sebbene non sia organicamente il loro lavoro più bello, ma quello che ha venduto di più, rimane comunque un disco per palati fini, se lo si esamina bene si possono trovare, oltre ai rimandi stilistici di cui sopra, anche un certo malcelato interesse per la musica country e per le radici ‘mmerecane (fanno fede a tal proposito la steel guitar su “Creatures Of Love” - ovvero come suonare come i Dire Straits senza risultare noiosi come i Dire Straits - e “Walk It Down”, piuttosto che la washboard e l’accordion su “Road To Nowhere” ), e in molti a questo disco han prestato un orecchio attento, tanto che la opener “And She Was” farà da paradigma per il sound dei R.E.M. a venire…





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